Giulio Marchioni e il “nuovo” vintage attraverso i social

Giulio Marchioni, influencer e appassionato di moda vintage, si aggira tra gli gli spazi espositivi di Pitti Uomo indossando una felpa rigorosamente vintage. Una Bethooven crewneck degli anni 60′, non la prima cosa che capita, un paio di ben vissuti double knees anni 70′ e cappellino New York rosso per un tocco di colore. Giulio classe 1995, emiliano doc, lo incontriamo a Pitti Uomo tra i vari personaggi che popolano la scena del fashion per fare due chiacchiere  sulla sua passione per il vintage, l’impatto dei social media e il futuro della moda.
 

Giulio Marchioni gira per Pitti con una felpa rigorosamente vintage

Giulio Marchioni gira per Pitti con una felpa rigorosamente vintage

 

Giulio Marchioni, classe 1995 e originario dell’Emilia, è un volto noto su TikTok e Instagram, dove condivide il suo amore per il vintage con il suo pubblico  che è quello dei GGs  (abbreviazione di “Giocatori”). I suoi video raccontano in modo fresco e naturale il tema del vestiario. Da quello che è hype fino al vintage più purista. Dall’immancabile outfit check (che nel gergo social sarebbe la descrizione da testa a piedi del proprio look, che a nostro parere è sempre azzeccatissimo) passando per le recensioni di nuovi drop e collezioni fino a dibattiti sul tema del vintage e dell’heritage.
«Io, Pharrel Williams e Dorian Gray abbiamo un quadro in soffitta», ci dice scherzando sulla sua giovane età. Fiero del suo background in ambito economico,  Giulio Marchioni ha lavorato con Calzedonia e Intimissimi. Ma è proprio il fast fashion ad averlo fatto allontanare dal fatidico “posto fisso”, in cerca di maggiori soddisfazioni che ha ritrovato proprio attraverso il vintage fashion.

 

Giulio Marchioni con la felpa Bethooven crewneck

Giulio Marchioni con la felpa Bethooven crewneck

 

Giulio Marchioni come è nata la sua passione per la moda ed il vintage?

«Ho iniziato ad interessarmi di moda partendo dal mondo delle sneakers […] era il periodo dell’“hype era”, poco prima del boom che poi si è creato col fenomeno del resell. Quando la bolla commerciale del Vintage è esplosa ed i prezzi sono andati alle stelle mi sono spostato sulla ricerca d’archivio e proprio qui ho ritrovato quello che cercavo. Il mio interesse per la moda, o meglio, l’interesse ad elevare il mio concetto di stile è iniziato ben prima. Forse arrivato da qualche mia mancanza. Sono sempre stato quello più piccolo, gracile e fanciullesco del gruppo e forse proprio questa mia situazione mi ha aiutato a far spiccare una mia peculiarità rispetto agli altri. Da qui a come sono arrivato alla mia passione per il vintage? È tutto iniziato dalle sneakers ampliandosi poi la tema del workwear, del vestiario militare e soprattutto delle felpe anni 50′ e 60′ che sono il mio pane quotidiano […] potrebbe essere anche una questione di materiali; sai com’è la sneakers, se non indossata, si degrada, si sbriciola, il cotone, invece, non deperisce».

Da dove nasce il termine GGs con il quale si riferisce al suo pubblico?

«In realtà l’ho rubato a un amico, Marco, AKA Tyson Dier. Lui ha questa teoria che nel mondo siamo tutti “G”, dove “G”, nello slang inglese, sta per gamer = giocatore. Tutti siamo “G”, ma i veri giocatori, i veri players, sono i GG, che pluralizzato diventa GGs. Il termine richiama anche il mondo del gaming, dove “GG” sta per “Good Game” o “Gran Giocata”».
Abbiamo accennato a come la provincia sia un luogo fertile per idee creative, le grandi città sono indispensabili per realizzarle?
«La domanda mi sta molto a cuore perché la dicotomia tra città e provincia è qualcosa che da sempre mi ha affascinato. Sono un ragazzo di provincia, di un paesino di 4000 anime, con logiche cristallizzate e una fitta storia alle spalle. Purtroppo, porta ancora avanti l’ideale che dalla provincia non può arrivare nulla di buono […] sono stato cresciuto con l’idea che sarei dovuto scappare e a 18 anni e quindi l’ho fatto […] ho lasciato la mia città di provincia in cerca della celebre “fortuna”. Guardandomi indietro e poi tornandoci dopo sette anni ho ritrovato quello che forse stavo perdendo […] è un processo. La città è semi-indispensabile per ambiti come la moda e il fashion ma credo che sia solo un periodo di transizione. Vorrei essere uno di quei vettori che possa far tornare la provincia ad essere percepita in modo positivo […] “Rinascimento provinciale” lo chiamo. Prevedo un cambio di mentalità, di comportamento, più lento che si allontanerà dal fast, fashion e non. Un metodo di approccio più empatico, sentimentale e viscerale che permetterà alla provincia di tornare cool».

Giulio, trovi che ci sia più interesse tra i giovani per il tema del vintage?

«Il vintage è un trend, un trend che può abbracciare tutti i target segmentandoli in modo diverso . Il vintage può vestire dal ragazzino fino al 90enne. Io credo che però il vintage ora stia tornando in voga più come una possibilità di guadagno andando incontro a tendenze di mercato. Per il vintage ed il second hand, i driver di acquisto non sono cambiati. Nel vintage, per ora, ci sono ancora i principi del fast fashion dove si vuole tutto velocemente, in modo repentino ed immediato, cosa che non può coesistere con il tema del vintage. Si ha, secondo me, la necessità oggi di cambiare l’esperienza e le abitudini di acquisto del consumatore, ribaltando la società consumistica del fast fashion ma sono fiducioso, arriverà tutto a tempo debito».

Cosa ne pensi di Pitti? Credi stia prendendo una via più legata al tema del workwear e del vintage rispetto al classico tailoring di cui si parla sempre?

«Pitti uomo è un mondo, un universo, un po’ strano. Vengo più per le persone, per creare contatti e incontrare gente interessante e non per cercare ispirazione in generale. Pitti Uomo  non crea tendenze, esterna delle tendenze dei trend che però non sono nuovi. Pitti si può immaginare come un collettore di persone, che si ispirano e mettono in mostra la propria ispirazione. Se il mercato ti fa capire che la moda vintage è forte allora lo porti a Pitti, ma non parte tutto da lì. Il Pitti non crea trend, Pitti Uomo si adatta ai trend, forse anche in ritardo. Il lato della moda workwear e dello stile militare, che infatti trova un target più ampio, sta prendendo sempre più la scena […] ma è un’esigenza di rimbalzo del mercato. Anche l’esperimento del padiglione vintage a Pitti lo vedo un po’ sottotono. Bisognerebbe dargli più spazio, energia e budget».

Si definirebbe un influencer? Pensa che abbia un’accezione negativa questa etichetta?

«Ho un concetto tutto mio di influencer. Credo che per essere influencer si debba avere qualcosa da dire. La gente ti ascolta se sei rispettabile, se hai competenze, hard skill da presentare che necessitano solamente di una cassa di risonanza. Allora lì sì che c’è un incontro tra professionalità e comunicazione e l’influencer funziona. Tutto il resto è solo rumore bianco. Per ora ho una mini-nicchia di persone che mi segue, che prende ispirazione da quello che dico e la cosa mi fa piacere. Il mio obiettivo è essere il più credibile possibile. Se la gente sa che ho altri interessi e passioni come la musica, il cinema, la letteratura fino alla prosa allora posso avere la certezza di funzionare o comunque comunicare qualcosa.
Non basta fare un video su Tiktok, prima bisogna studiare, acculturarsi ed essere curiosi. Se dovessi arrivare ad avere una potenza mediatica tale da poter davvero influenzare le persone, vorrei farlo in maniera propositiva. Vorrei favorire il loro ampliamento di orizzonti culturali.

Come è nato il suo brand Cocci?

«Cocci è nato principalmente per un interesse personale. Forse è stato un metodo di reazione alla posizione nella quale mi trovavo in ambito di fast fashion […] una sorta di legge del contrappasso dantesco. Poi ovviamente c’è una parte commerciale. Ispirandomi agli store americani ho voluto emulare quel tipo di modello di vintage e retail che qui non c’era»

Giulio, chi sono le tue icone di stile e dove trovi ispirazione maggiormente?

« Farei cinque nomi: Nigo, perché è un innovatore che ha fatto riconquistare agli orientali il mercato statunitense e mondiale attraverso Bape. Secondo posto, non per importanza, il suo maestro, Hiroshi Fujiwara di Fragment che ha plasmato il mondo dello streetwear come lo conosciamo oggi. Terzo posto Shawn Stussy, fautore di questo movimento ma trasposto in occidente. Quarto e quinto posto Pharrel Williams e ovviamente Kanye che, nonostante le ultime critiche, è per me l’unica personalità che ha un qualcosa di spirituale.

Qual è il suo fashion grail, un capo o un pezzo che vorrebbe nella tua collezione personale?

Ora come ora ti direi un afterhood, a prescindere dal brand […] si tratta di uno dei primi esempi di felpe col cappuccio che già comparvero nei primi anni 30′ fino agli anni 40′ […] vennero pensate non per essere felpe col cappuccio bensì il cappuccio venne apportato sopra in seguito. Unico problema, il prezzo di queste felpe, non si trova nulla sotto di 2000 dollari».

Il segreto per l’outfit perfetto?

«È tipo la ricetta della Cocacola […] risponderò in modo un po’ ruffiano. L’outfit perfetto è quello che ti fa guardare allo specchio e ti fa sentire bene con te stesso […] quando non senti nessun tipo di attrito in quello che stai indossando. Forse in più ti direi sicuramente il dare importanza alle proporzioni.

Giulio ci parli dei suoi progetti, della sua esperienza con la Galleria Paura e cos’ha in programma di nuovo?

«La mia testa è un frullatore di idee […] mi piace sperimentare. Col mio designer Edoardo Cavrini abbiamo iniziato un nuovo progetto per un overpants che ci ha dato un sacco di soddisfazioni. Oltre ad un progetto di design per un rail assieme ai designer Alberto Bonazzi e Gloria Peri che vogliamo lanciare e commercializzare. Crediamo nella ricerca, nel passato ma applicato ad oggi attraverso capi inseribili nell’armadio contemporaneo. Invece con Dani della galleria Paura è stata subito intesa. Ci siamo conosciuti sui social e siamo riusciti a trovare sinergia […] che magari arriverà ad una futura collaborazione o una capsule ad hoc. Per quanto riguarda il mio brand, Cocci, per ora voglio creare delle basi ed una legacy, un’eredità di brand, importante per il futuro».

 

Giulio Marchioni outfit Pitti

Giulio Marchioni outfit Pitti