Jacky Ickx, io pilota per caso

Jacky Ickx rappresenta la storia stessa dell’automobilismo.

Si definisce come un “sopravvissuto” in un’epoca in cui era considerato normale che un pilota su 3 perdesse la vita durante una corsa.
Abbiamo incontrato Jacky Ickx durante la scorsa 1000Miglia e la chiacchierata con lui è stata un susseguirsi di emozioni. Proprio come quelle che davano le corse ai suoi tempi.

Jacky Ickx inizia subito svelandoci un segreto. Sapete, incalza, che sono diventato pilota per caso? Per una fatalità del destino, in quanto a scuola ero ultimo in tutto e ciò non solo perché ero seduto nel banco in fondo alla classe. Le sole cose a cui pensavo era trascorrere le giornate all’aria aperta. Sognavo di diventare un giardiniere o un forestale. Neanche lontanamente pensavo alla possibilità di fare il pilota, nonostante mio padre, in quanto giornalista sportivo, invitava spesso a casa piloti di F1 degli anni 50 come Fangio o Moss. Di questo mondo non mi attirava niente. Un giorno però, in cambio di una promessa ad impegnarmi di più nello studio, i miei genitori mi regalarono una moto da trial. Ricordo quanto fui contento, non riuscivo più a staccarmi da quella moto. Piano piano iniziai a partecipare a piccole corse locali e, con grande meraviglia, scoprii che questa moto mi dava la possibilità di primeggiare finalmente in qualcosa.

Tutto ciò portò ad una serie di incontri “fatali” che permisero a me Jacky Ickx di diventare un pilota professionista a solo 19 anni.

Durante gli anni 60 partecipai a numerosi gran premi, come pilota di F2. Non vi erano molte vetture di F1 così per riempire inserivano le F2. Durante uno di questi GP, al Nürburgring, in uno dei circuiti più ostili, diedi prova delle mie abilità andando a recuperare le auto di F1 in testa alla corsa. Di vetture, a proposito, ne ho distrutte tante nel corso della mia carriera, ma questo è anche un modo per capire fino a quanto puoi spingerti con la tua auto.
Nel 1969 a Le Mans, durante la storica corsa della 24h, molti dicono che diedi inconfutabile prova del mio talento. Ma anche li tutto nacque dal caso e dal destino. Iniziai la gara camminando verso la mia vettura e non correndo e saltandoci dentro come erano abituati a fare tutti. Questo per un semplice motivo: la sicurezza. Tutti i piloti per partire ed essere primi non allacciavano la cintura di sicurezza, se non fino al momento del rettilineo dove la velocità arrivava a 350 Km/h. Alcuni poi non amavano l’idea di restare attaccati alla macchina in caso di incidente e non l’allacciavano mai. Una cosa pazzesca se ci pensate. Allora io decisi di partire con calma e sicurezza, anche perché se ci pensate su una gara di durata, non aveva alcun senso partire per primi. Così nel corso della stessa, insieme al mio compagno di squadra, Jackie Oliver, iniziammo quella storica rimonta. Finì con lo storico testa a testa con la Porsche 908 guidata dal duo Hans Herrmann e Gérard Larrousse. Devo dire che fu davvero una gara emozionante giocata d’astuzia. Alla fine riuscimmo a vincere, ma solo perché mi trovai a gareggiare con Hans Herrmann. Allora io avevo 23 anni e lui 38 e quello che spinge a guidare per vincere un pilota giovane è diverso da quello di uno più maturo. Si osa di più per quell’incoscienza della giovinezza, è normale. Se riesci a capire questa realtà è più facile accettare di ritirarsi senza avere alcun rimpianto. Sono fermamente convinto che il mondo appartenga ai giovani!


Ritornando alle gare, e a questa fantastica 100Miglia, anche se un po’ particolare perché organizzata in tempo di Covid con le relative restrizioni, lasciatemi dire che è come una rinascita. Vedere auto così belle sfrecciare incorniciate da un panorama altrettanto stupendo come quello delle strade italiane, è una sensazione che produce emozioni incommensurabili. Sono queste emozioni che mantengono vivo l’interesse per le corse. Permettetemi di fare un appunto. Oggi le gare automobilistiche, come la F1, sono diventate troppo professionali. I soldi hanno preso il sopravvento in ogni sport e questo si traduce in una minore “libertà”. Pensate che nel 1968 correvo in F1 con Ferrari e nel campionato Endurance con Ford. La concorrenza tra i due marchi era terribile, eppure noi piloti eravamo libere a tutti gli effetti. Nessun vincolo di esclusività ci legava ad uno sponsor o ad una casa automobilistica. Eravamo pagati bene ma restavamo polivalenti. Cosa che oggi i piloti non possono più fare poiché gli viene “chiesto” esclusivamente di dedicarsi interamente ad una disciplina. Vero è che oggi le vetture non sono come quelle che guidavo ai miei tempi. Dovevamo tenere sotto controllo il contagiri e gli indicatori di acqua, olio e benzina. Le regolazioni per la strategia di gara erano fatte manualmente regolando delle viti. Le vetture odierne sono piene di tecnologia, che non è male, ma a mio avviso si è perso un po’ quell’aspetto epico e cavalleresco della gara in sè. Alla mia età guido ancora e mi piace che sia io a farlo, non sono molto propenso all’idea che le auto diventino completamente autonome ecco.